Progetto DARE: la prevenzione della Steatosi Epatica diventa digitale

Si può fare prevenzione attraverso l’utilizzo del digitale?  Oltre 250 ricercatori di università, ospedali, aziende sanitarie, enti di ricerca e imprese del settore privato hanno risposto SI e così è nato il Progetto DARE (DigitAl lifelong pRevEntion), di durata quadriennale e finanziato dal Piano complementare al PNRR del Ministero dell’Università e della Ricerca e coordinato dall’Università di Bologna. L’Università Cattolica, coordinata dalla professoressa Stefania Boccia (responsabile della sezione di Igiene generale e applicata del Dipartimento di Scienze della Vita e Sanità Pubblica della Facoltà di Medicina e chirurgia e Vicedirettrice dell’IRCCS) e la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli coordinata dall’Ingegner Roberta Pastorino (Dipartimento di Scienze della Salute della Donna e del Bambino e di Sanità Pubblica della Fondazione Gemelli IRCCS) si propongono di “applicare strumenti innovativi di natura digitale, sia nella popolazione generale sia in categorie a rischio, contribuendo a colmare le disparità sociali e territoriali nell’offerta di servizi integrati socio-sanitari” come leggiamo su Secondo Tempo Cattolica News  

Nel modulo denominato Spoke 3il dottor Luca Miele e la dottoressa Francesca Ponziani, dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Interna e di Trapianti del fegato e del CEMAD (Centro Malattie Apparato Digerente) della Fondazione Gemelli, si occuperanno di implementare tecniche di diagnostica non invasiva e tecniche multiomiche e innovative digitali per meglio ottimizzare la prevenzione secondaria e terziaria delle complicanze della steatosi epatica non alcolica.

Abbiamo intervistato il Prof. Luca Miele (UOC Medicina Trapianti Fegato, UOC CEMAD) per approfondire scenari e obiettivi di un progetto profondamente innovativo.

Domanda “Come possiamo definire la steatosi epatica?”

Luca Miele “La steatosi epatica è una patologia del fegato, una condizione benigna nella quale il fegato accumula grasso perché ne ha bisogno in situazioni di necessità e così una minima quota di grasso il fegato lo deve fisiologicamente accumulare. Il problema è che in alcune persone, una percentuale dei pazienti che ha la steatosi epatica, questo accumulo di grasso può innescare una serie di processi infiammatori che porta poi a una condizione più grave che si chiama steatoepatite che a sua volta può condurre negli anni a delle condizioni più serie dal punto di vista patologico, ovvero alla cirrosi e anche al rischio di tumore del fegato. 

D “Quanto è frequente questa condizione nella popolazione generale?

LM “Ci sono delle stime che parlano di una percentuale che varia tra il 25% e il 30% della popolazione generale. Bisogna tenere conto che le percentuali di pazienti che vanno incontro a una condizione più aggressiva e più impegnativa sono al di sotto del 5% di questo 25%, quindi il messaggio deve essere di attenzionare questa condizione.

Condizione che è assolutamente correlata agli stili di vita e alle condizioni dismetaboliche come, per esempio, il diabete e l’obesità. Ci sono poi delle forme genetiche più particolari per cui anche persone magre possono avere queste steatosi particolarmente impegnative. Detto questo, qual è il problema di sanità pubblica? Il problema è che chiaramente i numeri fortunatamente in percentuale sono piccoli, però dato che impegna il 25-30% della popolazione generale quel 5% inizia a diventare una quota significativa, tant’è vero che oggi la steatosi epatica non alcolica, quindi non legata all’alcool, è la principale causa di trapianto (del fegato NDR).

Ovvero, le cirrosi che vengono da queste forme di steatosi più aggressive sono diventate la causa principale per il trapianto del fegato, anche perché siamo stati molto bravi a trattare l’epatite B quindi non abbiamo più fortunatamente molti casi legati all’epatite C, ma abbiamo molti casi legati all’obesità e al diabete.

D “In questi termini, il ruolo della prevenzione secondaria e terziaria quanto è importante?”

LM “Fondamentale. La prevenzione – in questo caso primaria – è per evitare che si verifichi la steatosi. Ma questa è una prevenzione che dev’esser fatta a qualunque livello, indipendentemente dall’intervento dell’ospedale. È chiaro che gli ospedali e i sistemi sanitari devono anche essere pronti alla sfida della prevenzione secondaria e terziaria, quando già si è verificata la steatosi e le sue complicanze: steatoepatite, la cirrosi e il rischio del tumore al fegato.

D “E qui, le nuove tecniche diagnostiche – che sono evidentemente patrimonio di CEMAD – e che verranno potenziate attraverso il progetto ‘DARE’ giocano un ruolo molto importante…”

LM “Assolutamente sì: CEMAD ha un ambulatorio dedicato alla steatosi epatica. Grazie a un focus molto specifico sulla steatosi epatica è centro di riferimento nazionale e internazionale per questa patologia. Partecipiamo a numerosi progetti di ricerca nazionale ed internazionale e siamo in grado di offrire ai nostri pazienti anche i migliori farmaci in anteprima nelle sperimentazioni cliniche che possano essere efficaci su questa patologia.

Purtroppo, queste patologie al momento non hanno ancora una cura specifica, un farmaco approvato dal sistema regolatorio che consenta la regressione dei danni collegati alla steatosi.

Disponiamo però di farmaci innovativi che sono a disposizione dei nostri pazienti al CEMAD nell’ambulatorio della steatosi.

D “In sintesi, qual è la novità del progetto DARE?”

È un progetto molto ambizioso che coinvolge numerosissimi centri italiani, accademici, di ricerca. È un progetto che pone al centro la prevenzione digitale, quindi saremo in grado, con il supporto di questo progetto, di sviluppare non solo la diagnostica non invasiva ma anche di implementare i processi di diagnosi e di assistenza al paziente nei cosiddetti percorsi cura.

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale ottimizzerà l’uso di alcuni algoritmi, di alcune tecniche di diagnostica non invasiva per la diagnosi delle forme più severe di steatosi epatiche e identificherà in questo modo anche dei fattori di rischio che potranno essere corretti nel processo della prevenzione, integrando non solo la diagnostica di laboratorio e gli esami dell’imaging dell’ecografia e della radiologia ma anche marcatori innovativi che possono derivare, per esempio, dal microbiota e da altre scienze omiche che abbiamo a disposizione.”

 

 

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